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  1. « Alizèe »
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    Didier Renè Beaumont
    XVufJjn
    I despised that light.
    Sheet - Break Cafè - 08.10.2034 - Blue Code
    "Che qualcuno lo uccida!".
    Il grido mentale lanciato dal ragazzo dal viso d'angelo e dalla lingua di serpente echeggiò nell'etere chiassoso della caffetteria, inghiottito dal rumore della macchina del caffè e di tazze posate malamente sui piattini e dal gran vociare che infestava la sala come una nube; con la mano destra sorreggeva una tazzina di ceramica squisitamente decorata con ricami floreali, mentre le dita della sinistra stringevano il piattino abbinato. L'espressione stancamente annoiata sembrava bastare come monito a coloro che gli erano seduti vicino, ma il bambino urlante sul passeggino non si era lasciato intimorire: esigeva l'attenzione di una madre indaffarata usando tutta la potenza dei suoi neonati polmoni. Didier gli lanciò l'ennesimo sguardo seccato, chiedendosi oziosamente perché non fosse dotato di un bavaglio invece che del sonaglio. Portò alle labbra la tazza, assaporando il suo fumante cappuccino, cercando di isolare il proprio udito : "Sia stramaledetto Lui e tutte le sue schifose creature".
    I ricci capelli biondi che gli incorniciavano il volto erano stati spettinati con cura, segno del fatto che aveva passato almeno un'ora a sistemarseli davanti allo specchio, quella mattinai; aveva cercato di esaltare la sua bellezza più del solito, prevedendo che il viaggio fino alla Capitale avrebbe portato via un po' di lacca e la lucentezza della propria pelle, appannandola con smog e l'umidità artificiale gli avrebbe increspato i capelli.
    - Sei peggio di una fotomodella - sua madre aveva riso, osservandolo, sensualmente appoggiata allo stipite della porta. Bèrenice aveva accolto con stupore la sua decisione di trasferirsi in città, anche se Didier non l'aveva mai vista sgranare tanto gli occhi quando le aveva detto che avrebbe frequentato l'Accademia: probabilmente era convinta che il figlio avrebbe cambiato idea, così come faceva da un decennio a questa parte, ma l'idea di trasferirsi lontano da lei e dal suo nuovo contraente, e frequentare una scuola tanto particolare lo aveva intrigato tanto che sarebbe stato difficile toglierglielo dalla testa.
    Non aveva mai frequentato una scuola, a causa del suo antico, orrido, aspetto e della guerra, era sempre stato costretto in casa, e sempre con le solite deprimenti compagnie: la madre, la domestica, e il Coso. Erano anni, ormai, che Didier si rifiutava di pronunciare il suo nome, perché, così come tutte le cose indegne, non meritava un nome proprio, tanto meno il titolo di padre. Quel padre del quale aveva tanto cercato l'approvazione e, nel suo momento di gloria, l'aveva abbandonato, come se nemmeno non considerasse la sua esistenza.
    Ma non l'aveva mai fatto, giusto?
    Quando mai l'aveva sfiorato con lo sguardo?
    Quand'era stata l'ultima volta che si era rivolto direttamente a lui, e attraverso sua madre, come se lui non fosse stato in grado di capire cosa gli stesse dicendo?
    Didier scosse il capo, e i riccioli color oro vecchio rimbalzarono appena, scacciando quei pensieri, decisamente troppo cupi per una giornata come quella: avrebbe cominciato una nuova vita, e vestito altri panni, almeno per un po'.
    Almeno finquando non l'avessero scoperto.
    In realtà, il motivo principale per cui era tanto ansioso di entrare all'Accademia era l'ebrezza del pericolo. L'ansia costante, l'angoscia, che diventavano brividi che gli increspavano la pelle, facendolo sentire più vivo che mai; in fondo, la noia era l'unica cosa in grado di uccidere un demone... a parte un pugno di esorcisti talentuosi, certo.
    Per celare la propria natura, avrebbe dovuto mentire, manipolare, ed intessere nuove trame per potersi sempre sporgere sul baratro, senza mai caderci dentro: come un trapezzista si tiene in equilibrio perfetto sul vuoto.
    Ed era per quella sensazione che Didier viveva, l'adrenalina che ruggiva nelle vene, il sangue che rombava nelle orecchie, come quella notte in cui aveva ucciso lei. Oh, sì.
    Allontanò la tazzina da sé e, nel farlo, guardò attentamente le proprie mani, rievocando il ricordo di quella notte, quella in cui aveva immerso la mano nel suo petto formoso e ne aveva estratto un cuore pulsante, e il sangue organico gli imbrattava le maniche fino all'avambraccio. Il rosso porpora che diventava viola alla luce lattiginosa della luna.
    Le urla del bambino lo riportarono al presente, dove il piccolo umano piangeva disperato. Sua madre se n'era andata. Il passeggino e il piccolo erano ancora al tavolo.
    Didier inspirò lentamente, facendo ricorso a tutto il suo scarso autocontrollo per non spezzare il collo tenero come gomma piuma al neonato.
    "Se proprio doveva abbandonare il figlio, avrebbe potuto almeno mollarlo qui a pancia piena" pensò, irritato, mentre abbassava le mani e artigliava il tavolo, sperando di non spezzarlo. Non era una novità che i genitori abbandonassero i figli, e la Capitale non faceva eccezione sul numero di trovatelli recuperati dalla polizia, ad un passo dalla morte per stenti.
    Nonostante le promesse di ricchezza e agiatezza, Rokkenjima non era diversa da molte altre città del mondo: brillava di palazzi di potere, di luci che invogliavano i clienti ad indugiare sulle vetrine, e le abitazioni dai tratti così moderni ed eleganti promettevano comodità di ogni sorta, ma tutto questo aveva un prezzo.
    "La ricchezza non può vivere senza la povertà".
    Didier fece guizzare la punta della lingua sulle labbra, raccogliendo le ultime tracce del sapore del cappuccino.
    Di decennio in decennio, il giovane demone non riusciva a stancarsi di osservare gli esseri umani, sia quelli che vivevano nel fango, sia quelli che si circondavano di gioielli e potere, e non conoscevano le parole "Non posso permettermelo". Li vedeva arrancare di giorno in giorno, nella speranza di una vita migliore, di tempi migliore, ma non vivevano abbastanza per trovare sollievo o delusione: il ché scocciava alquanto Didier, il quale avrebbe voluto godere dell'espressione di un essere umano che avesse vissuto almeno quanto lui, che avesse osservato l'umanità autodistruggersi e ricostruirsi solo per potersi distruggere ancora; e l'unica differenza era che, ogni volta che si distruggevano, sapevano farlo meglio.
    Era questo il senso della loro vita, e loro lo ignoravano!
    Sarebbe stato illuminante per loro e divertente per lui far conoscere loro il destino della loro specie.
    Da parte sua, quel bambino, stava decisamente chiedendo di essere soppresso. Stavolta, Didier espirò tra i denti, socchiudendo gli occhi. Le ciglia dorate sfiorarono appena le guance rosee, prima di sollevarsi, lasciando che gli occhi indugiassero sull'entrata del cafè, alla ricerca di ispirazione. E pazienza.
    2eRVNgz
    Riunisci nel tuo occhio il tramonto e l'aurora, diffondi profumi come una sera di tempesta; i tuoi baci sono un filtro, la tua bocca un'anfora, che rendono audace il fanciullo, l'eroe vile.
    Scheme Role by Amphetamines' ■ Vietata la copia anche parziale.


    Edited by « Alizèe » - 21/10/2013, 23:08
     
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    In tutto c'è una morale, se si sa trovarla.
    Character Sheet - BREAK CAFÈ - 08.10.2034 - Blue Code
    Abbandonare una volta per tutte il proprio nido, si era rivelato più difficile di quanto non avrebbe mai creduto. Per anni aveva considerato l'idea di andarsene, partendo per un luogo lontano dove, finalmente, avrebbe potuto diventare ciò che più desiderava. Aveva accarezzato il sogno di essere un asso del mondo sportivo per così tanto tempo, che ora gli sembrava quasi di essersi in qualche modo tradito nell'aver poi optato per una strada che prima non avrebbe neanche mai preso in considerazione. Le cose per lui erano cambiate così, dal giorno alla notte, e anche se l'adrenalina ancora gli scorreva nelle vene e il profumo di una vita avventurosa non era poi così malaccio, sentiva in qualche modo di aver deluso il vecchio se stesso. Quello che solo due anni prima si era detto pronto a farla finita, dopo quel brutto incidente che aveva minacciato di stroncargli la carriera per sempre.
    Se solo poco tempo prima il baseball era così importante da poter addirittura decidere quando e come porre fine alla sua esistenza, allora come mai adesso non era disperato al pensiero di non poter più essere semplicemente Misha, il ragazzino in fissa con lo sport? Entrare in contatto con un mondo tutto nuovo l'aveva già forse portato a dimenticare quello vecchio, quello in cui era cresciuto per la bellezza di diciassette anni?
    Beh, di certo qualcosa di quella nuova vita gli piaceva.
    Adorava essere una sorta di eroe, con tanto di arma divina caricata in spalle e missioni importanti da portare a termine. Adorava indossare una divisa ed essere consapevole di appartenere a qualcosa di grande, senza cui altri avrebbero patito pene inimmaginabili. Adorava sentirsi appagato giorno dopo giorno, neanche avesse salvato l'intero universo anziché una persona sola alla volta.
    Scoprire di essere un Esorcista era bastato a risollevarlo dagli ultimi sprazzi di depressione, che ancora avevano avuto la forza di fargli annegare il cuore in un mare di stolta inadeguatezza. Suo padre glielo aveva sempre detto che era destinato a grandi cose, tuttavia Misha lo aveva ascoltato con poca attenzione poiché convinto che non esistessero genitori, sulla Terra, capaci di dire il contrario ai propri figli. Adesso aveva la prova tangibile di essere uno dei pochi eletti, capaci di fare la differenza, di portare un vero cambiamento all'interno della comunità anche se in minima parte. Per lui sarebbe stato già tanto eliminare qualche losco individuo dalle strade, rendendole un poco più sicure, evitando così che in futuro altri bambini perdessero un parente per colpa di qualcuno con l'animo nero, di un malvagio, di un essere cui importava poco o niente delle conseguenze che le proprie orribili azioni potevano portare.
    Il ragazzo lanciò in aria la sua pallina porta fortuna, facendola poi roteare sulla punta del dito indice mentre, con l'altra mano in tasca, si dirigeva placidamente verso un punto imprecisato della cittadina. Di recente aveva avuto così tanti pensieri per la mente, che di rado era riuscito a prendersi una giornata da dedicare unicamente a se stesso e alle proprie passioni. Quella mattina si era divertito a giocare con un gruppo di ragazzini al vecchio campo, quello poco distante dal municipio, e ora si sentiva esattamente come un bambino il giorno di Natale: gli pareva di aver appena scartato il migliore dei regali, e questo lo confondeva visto che si era detto del tutto convinto a lasciar da una parte il suo iniziale sogno fanciullesco. Ormai non poteva più pensare ad una carriera sportiva, aveva ben altro a cui dedicarsi, eppure il piacere d'aver potuto condividere la propria vecchia passione con qualcuno era stato davvero piacevole. Forse anche troppo. Aveva voglia di farsi un'altra partita, nonostante avesse altri impegni con la scuola.
    "Poco male" si disse, calandosi meglio il cappello sugli occhi. Il sole stava cominciando a dargli alquanto fastidio, però mantenne lo stesso il suo perenne sorriso. Poche cose avrebbero potuto rovinargli la giornata. "Arrivato al dormitorio, farò qualche lancio."
    Stava già per accelerare il passo, quando il pianto di un piccolo pargoletto lo ridestò da ogni congettura. Veloce si voltò verso un bar, osservando con non poco rammarico la scena che gli si offriva inanzi: alcuni uomini si stavano occupando di quello che aveva tutta l'aria di essere l'ennesimo trovatello della città, sintomo di un dilagante disagio nei quartieri più poveri dove, lo si sapeva, si tendeva a mettere al mondo più figli di quanti non se ne potessero permettere. Gli si spezzò il cuore nel vedere come quegli individui si stavano addossando l'onere di prendersene cura mentre, le forze dell'ordine, erano sulla loro strada per raggiungerli.
    Subito, senza neanche riflettere, si avvicinò al gruppetto di gentiluomini e prese in braccio il piccino, facendolo saltare in aria. Il pargolo dapprima smise solamente di piangere e poi, una volta che si fu tranquillizzato, scoppiò in una dolcissima risata.
    Misha sorrise, giocandoci ancora.
    «Ci penso io a lui, fino a che non arriva qualcuno.» sentenziò, lanciando un'occhiataccia di rimprovero ai presenti, i quali non poterono fare a meno di sentirsi imbarazzati nel constatare che un semplice adolescente possedeva più decisione di tutti loro messi assieme. «...magari, intanto, portatemi un gelato al cioccolato. Con tanta panna!»
    Rise, mettendosi seduto.
    ...e, anche per quella giornata, aveva fatto la sua buona azione.
    L'ennesima.
    2eRVNgz
    Certe volte le cose funzionano solo perché sei tu a pensare che funzionino. È una definizione di fede che ne vale tante altre.
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